Esiste un algoritmo dal nome quanto mai eloquente: minimax.
Quasi un mantra buddista pronunciato da un contabile nevrotico, o forse l’invocazione di qualche divinità minore specializzata in catastrofi fiscali.
Questo singolare gioco di operatori — che i suoi cultori, con quella crudele innocenza tipica dei matematici, definiscono “pessimista perfetto” — rappresenta, a mio giudizio, la più rigorosa codifica mai tentata della weltanschauung italiana.
Quasi un mantra buddista pronunciato da un contabile nevrotico, o forse l’invocazione di qualche divinità minore specializzata in catastrofi fiscali.
Questo singolare gioco di operatori — che i suoi cultori, con quella crudele innocenza tipica dei matematici, definiscono “pessimista perfetto” — rappresenta, a mio giudizio, la più rigorosa codifica mai tentata della weltanschauung italiana.
Esso infatti parte dall’assunto, tanto inoppugnabile quanto deprimente, che l’avversario (categoria ontologica primaria del nostro vivere quotidiano) sarà sempre, immancabilmente, diabolicamente intelligente.
L’algoritmo, nella sua glaciale saggezza, non contempla la possibilità che il nemico possa essere idiota, distratto, o semplicemente umano.
L’algoritmo, nella sua glaciale saggezza, non contempla la possibilità che il nemico possa essere idiota, distratto, o semplicemente umano.
No: esso assume che l’Altro sia una perfetta macchina da guerra, un Kasparov digitale, un demone cartesiano specializzato nell’arte sottile del rovinare l'altrui esistenza.
È dunque un pessimismo metodologico, una paranoia epistemologica: ogni mossa viene vagliata non già in base alle sue virtù intrinseche, bensì immaginando il peggiore scenario possibile. “Se faccio così”, ragiona l’algoritmo con la mesta lucidità di un perfido assicuratore che esamina un sinistro, “cosa potrà mai escogitare quel maledetto per ridurmi alla più abbietta sconfitta?”
In tal modo, questo singolare congegno mentale riesce a trasformare il gioco — categoria per eccellenza dell’innocenza e della gratuità — in una cupa meditazione sulla malvagità universale.
È dunque un pessimismo metodologico, una paranoia epistemologica: ogni mossa viene vagliata non già in base alle sue virtù intrinseche, bensì immaginando il peggiore scenario possibile. “Se faccio così”, ragiona l’algoritmo con la mesta lucidità di un perfido assicuratore che esamina un sinistro, “cosa potrà mai escogitare quel maledetto per ridurmi alla più abbietta sconfitta?”
In tal modo, questo singolare congegno mentale riesce a trasformare il gioco — categoria per eccellenza dell’innocenza e della gratuità — in una cupa meditazione sulla malvagità universale.
Il tris, innocuo passatempo per bambini annoiati, diventa sotto la sua lente un teorema sulla perfettibilità del male.
E forse, in questo suo prospettarsi sempre il peggio, l’algoritmo minimax tocca una verità profonda: che la vera intelligenza, anche quella artificiale, non sta nell’ottimismo, ma nel prepararsi costantemente al tradimento del mondo. Esso è, in definitiva, l'emblema perfetto di una civiltà che ha imparato a diffidare persino dei propri sogni.
E forse, in questo suo prospettarsi sempre il peggio, l’algoritmo minimax tocca una verità profonda: che la vera intelligenza, anche quella artificiale, non sta nell’ottimismo, ma nel prepararsi costantemente al tradimento del mondo. Esso è, in definitiva, l'emblema perfetto di una civiltà che ha imparato a diffidare persino dei propri sogni.
Post scriptum:
Che tale algoritmo sia stato concepito per vincere a giochi come gli scacchi o il tris (non a caso viene utilizzato per l'aggiornamento dei pesi della rete neurale contro cui potete giocare nel post precedente), anziché per navigare le acque infide della burocrazia, rimane uno dei più clamorosi sprechi di talento della storia dell'informatica.
Che tale algoritmo sia stato concepito per vincere a giochi come gli scacchi o il tris (non a caso viene utilizzato per l'aggiornamento dei pesi della rete neurale contro cui potete giocare nel post precedente), anziché per navigare le acque infide della burocrazia, rimane uno dei più clamorosi sprechi di talento della storia dell'informatica.