Il suo ritmo frammentato, con frasi e paragrafi brevi, rispecchia il flusso delle informazioni rapido e spesso interrotto a cui sono abituati (notifiche, feed dei social media, multitasking).
Se da una parte questo flusso può rendere il testo più coinvolgente e meno “pesante” rispetto ai lunghi blocchi di prosa tradizionale, dall’altra non allena di certo alla concentrazione e alla riflessione approfondita.
Una domanda sorge spontanea: chi legge prevalentemente brevi testi scritti in questo modo, finisce per esprimersi e pensare allo stesso modo, più o meno consapevolmente?
Pensa alla tua mente. Adesso.
Ecco.
La senti?
È un nomade. Un nomade digitale.
Si muove. Sempre. Non si ferma mai.
Un tempo non era così. Un tempo c'era il silenzio.
Ora no.
Ora c'è il rumore. Continuo. Incessante. Notifiche. Email. Post. Stories. Messaggi.
Click click click.
Swipe swipe swipe.
Un gesto dopo l'altro. Centinaia. Migliaia. Milioni.
E la mente segue. Corre. Non riesce a fermarsi. Non sa più come si fa.
Questa è la storia di come abbiamo perso la quiete. E di come, forse, possiamo ritrovarla.
C'è un uomo, in un caffè. Sta fissando tre schermi diversi. Contemporaneamente.
Un telefono. Un tablet. Un laptop.
Non sta facendo niente, in realtà. Sta facendo tutto.
È ovunque. È in nessun posto.
Vedi?
Ecco il nomade digitale.
Non quello che lavora da una spiaggia tropicale. Quello vero.
Quello che abita nella tua testa.
Ti è mai capitato di aprire un'app senza un motivo?
Ti è mai capitato di scorrere, scorrere, scorrere senza fine?
Ti è mai capitato di dimenticare cosa stavi cercando, proprio mentre lo cercavi?
Ecco. Quello è il nomade che si muove.
Mihály Csíkszentmihályi. Un nome impossibile.
L'uomo che ha scoperto il flusso.
Flow. Flow. Flow.
Non quello dei social media. Quello vero.
È quando fai qualcosa e dimentichi di esistere.
È quando il tempo scompare.
È quando sei completamente assorbito.
È quando sei vivo. Davvero vivo.
Questo è strano. Molto strano.
Perché abbiamo creato un mondo che ci spinge verso un tipo di flusso — quello frammentato, quello spezzato, quello delle piccole soddisfazioni immediate — che ci allontana dall'altro — quello profondo, quello vero, quello che ci fa sentire interi.
La mente nomade cerca il flusso e si perde.
Prima:
Un libro. Una pagina dopo l'altra. Per ore. Senza interruzioni.
Una conversazione. Occhi negli occhi. Senza schermi di mezzo.
Un tramonto. Guardato e basta. Senza fotografarlo.
Ora:
Dodici tab aperte. Musica in sottofondo. Due chat attive. Una serie TV in pausa.
E la sensazione costante di non essere mai completamente presenti.
Mai.
La differenza è questa.
C'è una soluzione? Forse.
È semplice. E impossibile.
Fermarsi.
Non subito. Non tutto insieme.
Un pezzo alla volta.
Mindfulness, la chiamano.
Un nome complicato per una cosa semplice: essere dove sei.
Adesso.
Digital detox, lo chiamano.
Un nome trendy per una cosa antica: il silenzio.
Il nomade deve imparare a piantare la sua tenda. Poi la sua casa.
Il nomade deve imparare a fermarsi.
Prova questo:
Respira. Solo respira. Per tre minuti.
Spegni tutto. Tutto. Per un'ora.
Fai una cosa. Una sola. Per un giorno.
La mente si ribellerà. Griderà. Chiederà stimoli.
Lasciale gridare.
Poi, piano piano, vedrai.
La quiete non è assenza di movimento.
La quiete è movimento consapevole.
La quiete è scegliere dove andare, invece di essere trascinati.
La verità è semplice.
Il nomade digitale ha dimenticato una cosa.
Ha una bussola.
Ce l'ha sempre avuta.
Quella bussola è l'attenzione.
Non quella frammentata.
Quella vera.
Quella che ti permette di vedere le stelle.
La quiete è lì. Nel flusso.
Sempre stata lì.
Devi solo ricordarti come si guardi.
Fine della storia.
O forse, inizio?
Chissà.
Comunque sia, ora spegni tutto.
E ascolta.