Lo slogan che più mi irrita è “Noi siamo quello che mangiamo”. Troppo semplice. Troppo breve. Troppo di tutto. Come se la vita fosse una ricetta e gli uomini piatti da servire.
Non sarà mica una macchinazione mirata a sminuire il ruolo della cultura nella crescita personale?
Perché, invece, noi siamo ciò che abbiamo letto.
“Il giovane Holden” di Salinger mi è rimasto dentro, come la memoria di un viaggio adolescenziale.
Mi sembra di ricordare una New York invernale vista con gli occhi inquieti di un ragazzo in fuga.
La metropoli come un immenso palcoscenico dove si muovono attori inconsapevoli. Io e Holden, spettatori e protagonisti insieme. Conservo quel suo senso di spaesamento, quella percezione cristallina di essere stranieri in un mondo di finti.
La schiettezza con cui esprime il disgusto per l'ipocrisia degli adulti potrebbe essere la mia.
Al museo di storia naturale, il tempo sembra sospeso, con l’indiano del diorama che pesca o tira con l’arco mentre le persone e le situazioni cambiano di continuo. Contrasto. Dialettica. Poesia. Quello che resta e quello che scorre via.
E poi, quella domanda sulle anatre del Central Park, simile a una freddura: “Dove vanno quando il lago ghiaccia?”
Ecco, in questa semplice domanda c'è tutto il timore del cambiamento e la speranza — fragile, ostinata, necessaria — di ritrovare ciò che scompare. È di Salinger, ma potrebbe essere anche la mia o forse lo è stata.
La ribellione di Holden, che si manifesta nel rifiuto silenzioso del conformismo, è contagiosa e inguaribile, scava dentro lentamente e inesorabilmente.
Un vago ricordo di tenerezza per una sorella, Phoebe, mai conosciuta.
Il suono di una voce amica che continua a parlarti da lontano, anche quando non la senti più. Soprattutto quando non la senti più, perché i libri sono così: ti entrano dentro, ti cambiano e nemmeno te ne accorgi.